Io in mezzo alla gente, Sabato 15 Ottobre, c'ero.
Alla fine della giornata, non ho riportato ferite fisiche, ma per come sono io qualche segno in testa m'è rimasto.
Nonostante sia riuscito a manifestare poco, volevo lasciare la mia traccia, forse anche per me, per tirar via tutto ed avercelo pronto all'evenienza, in futuro.
Questo è solo un racconto di quello che ho visto.
Poche considerazioni, anche se ne ho piena la testa.
Probabilmente sarà una cosa lunga, quindi mettetevi l'anima in pace.
Era partito tutto bene: ero contento di avere gli amici di una vita lì con me, di sapere che anche mio padre era tra noi.
Ero contento quando la gente mi fermava per fare la foto al mio cartello, tanto che con la spinta degli altri lo innalzavo e lo facevo vedere, e già mi sentivo in imbarazzo.
Ma nonostante questo lo esponevo agli obiettivi, contento di essere portatore di un po' di buonumore.
Sto uscendo dalla metro di Repubblica, mi chiama un mio amico. È già con la ragazza, oltre la metà di Via Cavour. Mi avvisa che appena un secondo prima un gruppo di persone, incappucciate, col casco ed i volti coperti, aveva attraversato il corteo di netto, cominciando a spaccare le vetrine dei bancomat e a dar fuoco ai cassonetti. Mi consiglia di saltare l'inizio del corteo e di andare direttamente ai fori, dove la situazione sembra molto più tranquilla. Lo rassicuro, attacco il telefono. Ma con gli altri decidiamo comunque di proseguire dall'inizio.
C'erano tanti ragazzi, ma sembravano ancora di più le persone più grandi, le donne, i pensionati. I loro volti sereni, con solo tanta rabbia che sfogavano con canti, urla, danze.
C'erano le immancabili bande musicali delle associazioni, i venditori di fischietti, i giocolieri.
Insomma, c'era una marea di gente, e si stava di un gran bene.
Decidiamo di smettere di camminare sulle vie laterali: mi faccio porta cartello, e guido il piccolo manipolo di deficienti al centro della via, in uno spazio che si era creato tra il cordone principale.
Mentre ci stringiamo un po', visto che un mezzo dei vigili del fuoco è legato col nastro rosso-bianco al muro, per isolare i vetri di una banca a terra, nell'esatto momento in cui la folla si stringe un po', da davanti parte una piccola carica. L'umore cambia in zero: i sorrisi lasciano spazio alle urla, gli occhi grandi di allegria a quelli ancor più grandi del panico, la camminata lenta a una retromarcia brusca.
È questione di un attimo, non vedo neanche se son stati i poliziotti. Poi arriva il l'esplosione di una bomba carta: indietreggiando, molti di noi si trovano in un vicolo, mentre mi giro capisco che c'è qualcosa che non va. In fondo ci sono tre camionette, che ci sbarrano l'uscita dal vicolo.
Ma c'è il tempo di capire che la carica è passata, possiamo rientrare. Di nuovo, all'improvviso, il tempo per capire non ce l'abbiamo: mentre rientriamo su Via Cavour, da direzione Termini arrivano a scendere una ventina di persone, tutte vestite di nero. E succede quello che vedete nei primi ventidue secondi di questo video, più un altro minuto prima che non è stato ripreso:
Mi ritrovo nel vicolo, di nuovo, stavolta al chiuso: dietro le camionette, davanti le teste di cazzo.
E qui partono una serie di scene che, se non l'avessi viste con i miei occhi, stenterei a crederci:
i neri cominciano a scendere le scale, stringendo me ed un'altra sessantina di persone con le spalle contro i mezzi della polizia;
una ragazza strilla ad un poliziotto che si affaccia tra l'angolo del palazzo ed il muso di una camionetta, di spostarne una, per farci uscire, che questi ci ammazzano. Di risposta, un "Che cazzo vuoi che facciamo, porca madonna!!", urlato con tanto di manganello agitato;
i neri scendono ancora una rampa, qualcuno di loro si toglie la sciarpa da davanti la faccia per urlare e spaventare ancora di più. Hanno tra i venticinque ed i quarant'anni, agitano i bastoni. Noi gli gridiamo di andare via, loro avanzano;
la gente comincia ad arrampicarsi su un motorino rosa:
un piede sul sellino, uno sulla sfera di ferro dei pali e su, sul tetto della camionetta. Altri, invece, dal punto esatto in cui ho scattato questa foto, si fanno leva su un vaso e passano attraverso lo spazio tra i due cellulari. Dall'altra, parte, per fortuna, i poliziotti porgono mani per aiutare le persone.
Qui si raggiunge l'apice della tensione: le persone su Via Cavour, senza volerlo, stanno impedendo ai neri di uscire dal vicolo. Così come ci sono stai spinti, ora non sanno come andarsene. E per un attimo non sanno che fare: per un attimo sembrano volerci montare sopra, poi capiscono che dopo di noi ci sono i poliziotti. Quindi tentano di risalire, ma un signore, nonostante l'età, li blocca. Supportato da altri manifestanti "normali", ne placca uno e lo butta a terra. Il branco si avventa sull'uomo, alzando e facendo cadere i bastoni.
Io, da un paio di minuti, sto aiutando signore, genitori con bambini e ragazze in preda al panico ad scavalcare quel vaso, che per tutti, presi dall'agitazione, è una montagna. Quando vedo l'uomo venire picchiato, alzo lo sguardo verso un poliziotto, in piedi sul tetto della camionetta.
Gli grido di fare qualcosa, di spaccargli le gambe, di intervenire.
Il suo sguardo è vuoto, si gira guardando in basso verso i colleghi, in cerca di un appoggio.
Niente.
I neri si placano, svicolano dalle persone che vorrebbero bloccarli e si dileguano.
Nel mentre, però, scavalco io.
E il tizio che coordina il plotone fa fermare me, ed un altro ragazzo.
Ora, io in una situazione così non mi ci son mai trovato. Tutto quello che so, su quando ti fermano le guardie, si chiama caso Cucchi, Aldrovandi, Uva, e così via.
Non un quadro proprio rassicurante.
Quando poi, mentre un tizio in borghese ma con casco e manganello, ti tiene il braccio inchiodandoti di fatto in mezza ad una cinquantina di poliziotti in tenuta antisommossa, il quadro è proprio storto.
Diciamo solo che ho sperato di svenire alla prima manganellata.
Invece, dopo la solita scenata ("te stavi a menà..", "t'ho visto che stavi a picchià.."), un controllo dello zaino e troppo tempo per controllare che non avevamo precedenti, devo dire che un lato umano, piccolo eh, l'ho visto.
Perché c'erano persone, sotto quei caschi. Persone che aspettavano ordini, erano pronti per sparare lacrimogeni, ad intervenire contro i neri. Ma quell'ordine, almeno per il tempo in cui sono stato vicino a loro, non è arrivato. Ci hanno fatto spostare ("se stannò a avvicinà, occhio!!"), si son preparati. Ma nessuno gli ha detto di avanzare un solo passo.
Per questo il poliziotto che strillava alla ragazza bestemmiava, ed ecco spiegato il perché dell'immobilità di quello in piedi sulla camionetta: aspettavano. Io ci ho visto che sarebbe intervenuti volentieri, ma niente. Il vuoto.
A me spiace solo per una festa rovinata, per un inizio di cui nemmeno abbiam visto la fine.
Non voglio mollare, non mi va. Ce ne stanno combinando di tutti i colori, ma noi dobbiamo essere daltonici.
Io ci credo ancora.
A breve, forse ma spero di no, altre considerazioni.
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lunedì 17 ottobre 2011
martedì 4 ottobre 2011
Mi Piace Vivere In Italia
Mi piace vivere in Italia.
Ci sono nato, qui.
Ci sono cresciuto, e ci morirò.
In Italia ho tutto quello che mi serve: ho totale rispetto di tutte le leggi, per altro giustissime, le forze dello stato mi proteggono, ed ogni mio diritto di cittadino uguale agli altri mi viene pienamente riconosciuto.
Ho cinquantasei anni, faccio il barista da venticinque e la mia vita non potrebbe essere migliore: sono sposato, ho due bambine bellissimi e tra poco arriva il maschietto. Mia moglie mi ama, così come io amo lei.
Cosa posso chiedere di più?
Vi faccio un esempio, così forse capirete quanto si possa amare il proprio paese: la settimana scorsa sono andato a fare la visita per questa brutta tosse che ho, così a solo un anno e mezzo da quando l'ho richiesta sono andato al San Fazio, l'unico ospedale rimasto a Roma dopo la grande privatizzazione del 2026. Negli altri hanno costruito i primi casinò. Ogni tanto ci andiamo, io e mia moglie: tre mesi fa abbiamo vinto quasi diecimila euro, e finalmente ci sino potuti permettere quella cena fuori in che non riuscivamo a farci da anni.
Ma sto divagando.
Dicevo, mi hanno visitato, e mi hanno dato subito le analisi. Purtroppo mi hanno diagnosticato un tumore ai polmoni, ma non posso lamentarmi: i medici hanno detto che mi rimangono circa sei mesi di vita, e considerando che ormai l'età media è al massimo di cinquant'anni per tutti, posso ritenermi un privilegiato. Quasi mi stavo preoccupando.
Con mia moglie abbiamo già deciso di aspettare un po' per dirlo alle bambine, e se davvero resisterò sei mesi avrò anche la fortuna di veder nascere mio figlio, che abbiamo deciso di chiamare Silvio, come me.
In realtà non mi chiamavo Silvio, ma da quando c'è stato l'obbligo di cambio nome durante la guerra bancaria con la Svizzera, per confondere le transazioni a tutti gli uomini fu imposto di usare il nome di quello che era il Presidente della Repubblica in carica. All'inizio molti (non me) si erano lamentati, ma ormai ci avevano fatto l'abitudine, e soprattutto non volevano seguire l'iter per cambiare di nuovo nome. Ci volevano solo quattro anni, e la richiesta doveva essere correttamente compilata, dal riempimento del modulo alle prove pratiche: ad esempio, per due mesi consecutivi ma senza regolarità, chi aveva fatto richiesta veniva chiamato a gran voce per strada, per vedere se si sarebbe girato. Dicevano che non fosse facile non voltarsi quando al grido di "Silvio!!" si giravano praticamente tutti gli uomini per strada. Insomma, c'era chi si lamentava di questo. Ma il mio motto è: se davvero vuoi fare una cosa, falla. E non rompere le scatole.
Comunque, il mio tempo stringe, ma sono sereno. Mi godo anche le più piccole cose, che magari prima mi sfuggivano. Dovete sapere che ora, essendo malato di grado 7b, la mia assicurazione mi copre le aspirine, le fialette di morfina per l'aerosol e la possibilità di sospendere la cura obbligatoria di valium. Sarà per questo che mi sembra di avere un poco più di attenzione nelle cose, per esempio l'altro giorno mi figlia è rientrata dall'asilo con la sedia che si deve portare da casa ed è cosa difficile, perché mancano da quando i soldi vanno per la sicuramente più giusta causa dei sottobanchi condizionati delle scuole private e diventano merce rara per i bambini degli zingari, che per carità, tutto il rispetto, ma da quando sono liberi di entrare nelle nostre scuole non se ne può più. Per fortuna il Ministro della Fu Giustizia Renzo Bossi sta studiando una cura obbligatoria che impedisca loro di procreare. Speriamo bene.
Insomma, nonostante tutto, la mia vita scorre tranquilla: mi sento protetto, al sicuro, e già mi godo il momento in cui andrò a riposare accanto a mio padre e mia madre, nella fossa comune di Ostia Antica.
Ora torno a vedere un po' di televisione neurale, ho bisogno di distrarmi un po' con qualche dibattito apolitico tra il figlio di Bersani e Bersani.
Buona notte.
venerdì 30 settembre 2011
Lettera
Oggi ho ricevuto una mail da una persona che suegue il mio blog, che non conosco, e che mi ha colpito molto.
Mi trova un po' spiazzato, perchè non so che fare, quindi ogni consiglio è ben accetto. Sono riuscito a rispondere a questa persona, che mi ha dato piena libertà di pubblicare quanto segue, copia e incolla:
"ciao jacopo. trovo il coraggio di scriverti solo ora, non so cosa mi bloccasse prima ma ora non m'interessa, lascio scrivere le mie mani così, come se fossero loro a muovere me. non so cosa mi spinge a scrivere proprio a te, potre rivolgermi a qualcuno che forse può davvero aitarmi. ma ho imparato che il cuore spesso vince sulla ragione, per cui eccomi qui. mi piace come scrivi, mi piace un sacco, e riuscire anche solo ad avvicinarmi alla tua tecnica, al tuo ritmo beh, mi è semplicemente impensabile. sono spaventato, spaventato a morte, perchè ci provo, ci provo fin da quando ho letto il tuo primo post, e parlo di quello che apristi nel periodo in cui vivevi a lecce, quando scrivevi di canzoni e inventavi interviste, di come il tuo ipod scegliesse per te quasi a leggerti il pensiero, o il cuore. ti seguo da tanto, e spesso ho provato anch'io a lasciarmi andare, a liberare le mani come sto provando a fare ora. ma c'è qualcosa che mi ferma, che mi impedisce di dare quel ritmo, quel tempo e quella struttura che solo tu riesci ad imprimere. forse so cos'è, ma non voglio esserne sicuro. ti invidio, ti invito tanto, perchè vedo che sei completo, nello scrivere, hai tutto quello che ti serve, tocchi i tasti giusti. quelli che io non riesco, non voglio, non posso premere. non posso, mi dispiace. ci provo, ma non posso nemmeno sfiorare gli stessi tast che tu tocchi. voglio lasciarti con una poesia, pochi versi che, forse, ti faranno capire cosa si prova, ad essere me. sulla via del crepuscolo, mentre vado verso dio, vorrei avere lo shift ed il blocca maiuscolo, ma soprattutto il tasto invio."
giovedì 29 settembre 2011
La Banda Dei Fuochi D'artificio
[Seconda Parte]
Il dolore era insopportabile, lancinante. La fitta gli partiva da dove era stato colpito, come se al centro del foro causato dal proiettile ci fosse un tizzone ardente, che bruciava la carne viva. Un piccolo sole di dolore al centro della pancia.
Era fuggito ormai da quasi un'ora, passata ad arrancare partendo dall'appartamento del sindaco, sino ad arrivare sul luogo dell'appuntamento, un piccolo casolare abbandonato che avevano ribattezzato "Cesarini", perché ci dovevano andare solo in extremis, solo nel caso in cui, all'ultimo, non fossero riusciti a portare a casa il bottino. Era dalla parte opposta di un campo di spighe secche, da cui si accedeva dalla città.
Forse per gli spasmi, forse perché era scivolato a forza di essere sommerso di sangue, il proiettile era venuto via quasi subito, ma il dolore che aveva provato era comunque andato oltre ogni sua immaginazione. Ma almeno era riuscito a percorrere più della metà del tragitto un po' più velocemente.
Ora doveva solo aspettarlo, anche perché aveva bisogno di cure ma soprattutto aveva lasciato troppe tracce dietro si sé, una lunga scia di gocce di sangue, per non parlare nel corridoio che aveva formato passando attraverso l'erba alta.
La notte era immobile, silenziosa. Ancora si sentiva l'odore di zolfo lasciato dai fuochi, e nemmeno un soffio d'angelo smuoveva le fronde degli alberi circostanti. Lui ci credeva agli angeli, ci credeva eccome. Si ricorda di quando la madre, mentre gli rimboccava le coperte d'inverno e spalancava le finestre d'estate, per farlo addormentare gli raccontava la storia di un angelo di nome Clarence, che mostrava alle persone che si sentivano inadatte a questo mondo, o che venivano prese in giro perché brutte o poco attente, insomma questo Clarence gli faceva vedere come sarebbe stato il mondo senza di loro, ed era un mondo pieno di cose brutte, perché alla fine tutti erano importanti e tutti dovevano capire che il mondo aveva bisogno di loro. Quando era più grande, e la mamma ormai non c'era più, vide un film su questo Clarence, e fu contento perché voleva dire che la mamma aveva ragione sugli angeli. Se ci fanno i film, sono cose vere.
Ma tutto questo pensare sugli angeli fu interrotto da un'altra fitta, ancora più forte, e dovette stringere i denti e serrare le labbra per non urlare. Riusciva a sentire l'odore del sangue, del proprio sangue. Un conato lo avvolse, ma riuscì a trattenersi. Era passato troppo tempo, ormai sarebbe dovuto essere già qui.
Pensò prima all'ipotesi di andare via, tornare a casa e cercare delle bende, qualcosa che potesse fermare quel fiume rosso. Il problema sarebbe stato non dare nell'occhio, ma un tizio vestito di calzamaglia nera che sanguina come un porco sgozzato, forse un po' si nota.
Poi valutò l'idea di fermarsi, magari riposarsi dentro il Cesarini e trovare un modo di andare fuori città il mattino dopo, magari saltando su di un treno in fondo alla piccola vallata. Ma il rischio di addormentarsi, e risvegliarsi direttamente in braccio agli angeli, quello proprio no.
Decise di prendersi il rischio di tornare a casa, ma doveva stare attento a non farsi vedere, a passare nei vicoli che sin da piccolo faceva ad occhi chiusi.
Lo diceva sempre anche lui, "se beccano uno, trovano subito anche l'altro".
E sperava proprio che anche lui fosse al sicuro, magari solo stordito o leggermente ferito, ma vivo e libero.
Con un'altra, terrificante fitta, cominciò a zoppicare verso casa, curvo dal dolore e sempre più stanco.
[fine seconda parte]
mercoledì 14 settembre 2011
La Banda Dei Fuochi D'Artificio
Il collegamento c'era, questo era chiaro. Ma l'ispettore non riusciva a capire quale fosse. Aveva provato a tracciare decine di piccole linee mentali tra un caso e l'altro, cambiandole, sostituendole, ricordando le frasi dei testimoni e tentando di incastrarle sovrapponendole alle scene del crimine.
Ma ogni volta tutto sfumava, qualche cosa, da qualche parte, cadeva. E con essa tutti i pezzi faticosamente tirati in piedi.
Era appena arrivato sul luogo del sesto caso in due mesi. Ma stavolta c'era qualcosa di più: due cadaveri.
Fino a quel momento le scene del crimine erano state le case di alcuni medici ed infermieri dell'ospedale del paese, furti che avevano comunque due particolarità: veniva rubato solamente un flacone di Valium, e sempre quando c'erano i fuochi d'artificio. Era successo la prima volta per la festa del patrono del paese: in due case, entrambe di psicologi dell'ospedale, erano stati rubati solo gli ansiolitici, e solo quelli. Avevano approfittato del momento dei fuochi d'artificio per aprire la porta di casa con un chiavistello, potendo anche permettersi di fare rumore visti i colpi che venivano da poche centinaia di metri.
E così via per altre quattro volte, fino a stasera.
Le vittime erano due, il padrone di casa ed uno dei ladri. L'ispettore conosceva bene la casa, e l'idea che il proprietario fosse rimasto ucciso lo agitava. Ma lo faceva agitare ancora di più l'idea di poter sapere chi fosse il ladro.
Mentre si dirigeva verso il vialetto, il detective notò quelle macchie troppo scure per essere gomme da masticare ormai fossilizzate nell'asfalto. Si chinò, sfiorò una di quelle macchie e riconobbe subito la consistenza, il forte odore: era sangue. Le ultime macchie di sangue di una scia che partiva dal portone della casa. E nessuno le aveva ancora segnate con il gesso.
Mostrò il distintivo al poliziotto di guardia al nastro giallo, che lanciava piccoli riflessi di luna mentre vibrava per la leggera brezza estiva. Il poliziotti si mise sull'attenti pronunciando "Signore!", e subito dopo alzò il nastro per far passare il suo superiore. L'ispettore passò, e sorrise amaramente mentre si rivedeva in quel ragazzo.
-Avrà tirato fuori la pistola solo per provare le mosse davanti allo specchio-, pensò.
La casa era modesta, come tutte quelle del paese, e mentre si faceva largo tra fotografi ed agenti della scientifica faceva quasi fatica lungo il corridoio a seguire la piccola scia, che dall'entrata di casa aveva cominciato ad avere piccoli segni di gesso bianco e nero a seconda del colore della superficie su cui era colato. La seguì, a stento salutò i colleghi che incontrava, che provavano a fermarlo, aveva bisogno di capire da dove partisse quella traccia, se era di chi giaceva ora sul pavimento, o di qualcuno che era riuscito a fuggire. La risposta gli fu subito chiara: la prima macchia partiva da quasi due metri di distanza dai corpi, ed era talmente grande che si vedevano chiaramente due impronte farsi sempre più labili e secche man mano che arrivavano alla porta.
Qualcuno era scappato. Qualcuno, molto probabilmente colpevole dello strazio che gli si stava mostrando in tutta la sua morte, quel qualcuno era libero. Ferito, ma libero.
E dopo che ebbe la conferma che uno dei due corpi era quello del ladro, si avvicinò lentamente all'altro cadavere.
D'improvviso, come se un sipario fosse calato sui suoni della stanza invasa da macchine fotografiche e buste di plastica e fruscii di penna e registrazioni audio, calò un silenzio inquietante.
L'ispettore si mise due guanti di lattice, prese tra le mani la testa martoriata del proprietario.
Un medico.
Il sindaco.
"Papà", sussurrò.
Ma ogni volta tutto sfumava, qualche cosa, da qualche parte, cadeva. E con essa tutti i pezzi faticosamente tirati in piedi.
Era appena arrivato sul luogo del sesto caso in due mesi. Ma stavolta c'era qualcosa di più: due cadaveri.
Fino a quel momento le scene del crimine erano state le case di alcuni medici ed infermieri dell'ospedale del paese, furti che avevano comunque due particolarità: veniva rubato solamente un flacone di Valium, e sempre quando c'erano i fuochi d'artificio. Era successo la prima volta per la festa del patrono del paese: in due case, entrambe di psicologi dell'ospedale, erano stati rubati solo gli ansiolitici, e solo quelli. Avevano approfittato del momento dei fuochi d'artificio per aprire la porta di casa con un chiavistello, potendo anche permettersi di fare rumore visti i colpi che venivano da poche centinaia di metri.
E così via per altre quattro volte, fino a stasera.
Le vittime erano due, il padrone di casa ed uno dei ladri. L'ispettore conosceva bene la casa, e l'idea che il proprietario fosse rimasto ucciso lo agitava. Ma lo faceva agitare ancora di più l'idea di poter sapere chi fosse il ladro.
Mentre si dirigeva verso il vialetto, il detective notò quelle macchie troppo scure per essere gomme da masticare ormai fossilizzate nell'asfalto. Si chinò, sfiorò una di quelle macchie e riconobbe subito la consistenza, il forte odore: era sangue. Le ultime macchie di sangue di una scia che partiva dal portone della casa. E nessuno le aveva ancora segnate con il gesso.
Mostrò il distintivo al poliziotto di guardia al nastro giallo, che lanciava piccoli riflessi di luna mentre vibrava per la leggera brezza estiva. Il poliziotti si mise sull'attenti pronunciando "Signore!", e subito dopo alzò il nastro per far passare il suo superiore. L'ispettore passò, e sorrise amaramente mentre si rivedeva in quel ragazzo.
-Avrà tirato fuori la pistola solo per provare le mosse davanti allo specchio-, pensò.
La casa era modesta, come tutte quelle del paese, e mentre si faceva largo tra fotografi ed agenti della scientifica faceva quasi fatica lungo il corridoio a seguire la piccola scia, che dall'entrata di casa aveva cominciato ad avere piccoli segni di gesso bianco e nero a seconda del colore della superficie su cui era colato. La seguì, a stento salutò i colleghi che incontrava, che provavano a fermarlo, aveva bisogno di capire da dove partisse quella traccia, se era di chi giaceva ora sul pavimento, o di qualcuno che era riuscito a fuggire. La risposta gli fu subito chiara: la prima macchia partiva da quasi due metri di distanza dai corpi, ed era talmente grande che si vedevano chiaramente due impronte farsi sempre più labili e secche man mano che arrivavano alla porta.
Qualcuno era scappato. Qualcuno, molto probabilmente colpevole dello strazio che gli si stava mostrando in tutta la sua morte, quel qualcuno era libero. Ferito, ma libero.
E dopo che ebbe la conferma che uno dei due corpi era quello del ladro, si avvicinò lentamente all'altro cadavere.
D'improvviso, come se un sipario fosse calato sui suoni della stanza invasa da macchine fotografiche e buste di plastica e fruscii di penna e registrazioni audio, calò un silenzio inquietante.
L'ispettore si mise due guanti di lattice, prese tra le mani la testa martoriata del proprietario.
Un medico.
Il sindaco.
"Papà", sussurrò.
[fine prima parte]
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